due chiacchiere

Che bello il protezionismo linguistico

Gli avventori di vecchia data che frequentano questo piccolo rifugio virtuale disperso nella rete sanno del mio disprezzo (si, direi proprio disprezzo) per le invasioni di parole inglesi a danno della nostra bella lingua. Nel mio caso, lavorando nel settore informatico, si è spesso trattato di una tortura quotidiana nel dover sentir pronunciare parole come shiftare, scrollare, backuppare e chissà quali altri inguardabili termini tecnici. Pare che negli ultimi decenni, la situazione sia peggiorata, ed ormai concetti come spending review, welfare, lockdown e smart working sono entrati a far parte del parlato comune da chiacchiere da bar. E pazienza se con questo intervento darò a chi è rimasto sdegnato dopo il mio post sul voto, più motivi di pensare che io sia soltanto uno sporco fascista.

Vignetta con due persone. La prima dice: lei ha qualche know-how da segnalarmi? La seconda risponde: al momento no, ma posso scaricarne un paio di Spotify.

Però poi leggo interventi come quello di Mantellini, e mi rendo conto che ogni scusa è buona per criticare le parole di questo o quel ministro, come se le stesse cose non fossero spesso state dette dai governanti di altri colori, quando erano a guidare il Belpaese (e all’epoca nessuno a battere ciglio, ma vabbè). Il problema è che in Italia non c’è mai stata una cultura dell’orgoglio linguistico come esiste in Francia ma anche in Spagna e Germania. L’Accademia della Crusca non è così influente e radicata come l’Académie Française, che bacchetta giornali ed educatori quando usano anglicismi fuori luogo, e che s’impegna molto attivamente a trovare subito neologismi per mettere in atto questo protezionismo linguistico nazionale. Se sin dall’inizio avessimo chiamato il lockdown in maniera diversa, forse quella parola non si sarebbe diffusa (e la colpa è anche della svogliatezza dei media a trovare un equivalente in Italiano). Lo stesso con lo smart working e tante altre parole recenti dovute alla pandemia. I francesi hanno addirittura una legge (del 1994) che impone la protezione della lingua nazionale.

Retaggio? Stupido protezionismo? Io lo chiamerei piuttosto senso critico, apertura al dibattito, amor proprio e della propria identità culturale-linguistica. Certo, gli estremi dell’italianizzazione fascista non potrebbero funzionare oggi,  ma se al bar ordiniamo un tramezzino invece che un sandwich, lo si deve anche agli sforzi messi in campo a quei tempi. Oggi ognuno è libero di usare la parola che vuole, come è giusto che sia. Persino in Francia nessuno può vietarti di scrivete software al posto di logiciel, ma con l’ausilio dei media ed un pizzico di sano orgoglio patriottico, non serve imporre niente per legge. E se l’inglesismo prende piede, esso troverà posto nelle pagine dei dizionari senza polemiche. Il progresso di una Nazione non dipende certo dalla lingua parlata: le competenze non si acquisiscono col chiamarle skills!

 

Commenti

  1. Aldo
    ha scritto:

    L’Italia, insieme al Giappone, è il paese con più anziani al mondo. La stragrande maggioranza di questi a stento sa parlare l’italiano, figuriamoci l’inglese. Perfino Draghi si chiese perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi.

    Risposte al commento di Aldo

    1. ha scritto:

      Perché l’italiano medio ha paura di ostentare il proprio patriottismo, ha paura di essere etichettato come fascista o chissà cos’altro. I borghesotti di periferia che hanno fatto soldi a palate senza spesso una sana educazione scolastica, vogliono sentirsi al passo con i tempi e pensano che l’inglese sia chic e dia un tono più autorevole a quello che dicono. Si sentono più importanti, più colti, più… borghesi.

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