Correva circa l’anno 1997, quando per la prima volta mi capitò tra le mani questo libro: La profezia di Celestino. Da allora l’ho riletto almeno tre volte, ed in ogni occasione vi trovo sempre un messaggio nuovo che, chissà come mai, mi era sfuggito la volta prima. Si tratta di un “libro di successo” che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Alcuni lo considerano una pietra miliare della new age, per altri è soltanto un falso clamoroso.
È un romanzo di James Redfield, pubblicato per la prima volta nel 1993, e da allora protagonista di un successo planetario. Al centro della vicenda, un viaggio in Perù, sulle tracce di un misterioso antico manoscritto, che conterrebbe un messaggio di importanza vitale per l’umanità, e che tutte le autorità e le istituzioni di potere, dalla Chiesa alle forze armate ai governi, insieme, starebbero cospirando per occultare. Gli indizi per questa ricerca arrivano al protagonista sotto forma di una pioggia continua di coincidenze sorprendenti, di incontri con personaggi eterogenei, di messaggi sibillini, di labirintici giochi del destino, in qualche caso di deliberati “esami” e prove da superare, coerentemente con l’assunto primario dell’intera storia, secondo cui “le coincidenze non esistono” e qualunque evento è un messaggio da cogliere.
Questo è un riassunto dell’opera, tratto dal sito del Comitato Italiano di controllo delle le affermazioni sul paranormale, di cui si ricorda sempre uno dei membri più noti al grande pubblico: Piero Angela. L’articolo sul sito CICAP, in effetti, tende a smontare l’intera teoria messa in piedi dall’autore, James Redfield. Io, invece, ho trovato sin dall’inizio un che di particolare in “Celestino”, che mi ha aiutato a leggere meglio alcuni avvenimenti della mia vita quotidiana.
Non starò certo qui a raccontarti noiosi dettagli sul perché trovo interessante il libro. Piuttosto vorrei porti una domanda: ti è mai capitato di notare che ti accadeva qualcosa e poi, quasi per caso, ciò si collegava ad un altro evento, aiutandoti a superarlo meglio? Ricordo non molto tempo fa, ad esempio, un esame d’inglese che dovevo fare. Tra i vari esercizi c’era il tema: descrivere in circa 100 parole una traccia data dall’insegnante. Il trucco, ci aveva ammonito il nostro maestro, stava nel trovare delle parole e degli argomenti che potessero essere infilati in qualsiasi traccia: la famiglia, gli hobby, frammenti di quotidiano.
Così mi misi a pensare, e mi venne in mente una sera che, trovandomi all’estero, eravamo andati al ristorante giapponese (ok, di questo parlerò in cucina, casomai). Avevo deciso: qualsiasi traccia usciva, avrei parlato di shrimps, lobster and fish (gamberi, aragosta e pesce). Per fare una buona impressione sulla mia capacità di usare parole “non di uso comune”. Arrivato al giorno dell’esame, non riuscivo a credere ai miei occhi: la traccia diceva testualmente “racconta ad un tuo amico qual’è il tuo ristorante preferito in città e cosa ti piace mangiare”. Era un chiaro segno che Celestino, ancora una volta, aveva colpito. Anche se per alcuni potrà sembrare solo una colossale coincidenza.
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