Visitando un campus americano si avverte sin da subito un clima diverso da quello che si respira entrando in un ateneo italiano. Lasciando stare le punte d’eccellenza come la Stanford University (chi è mai stato a San Francisco sa di cosa sto parlando), quello a cui mi riferisco è lo spirito del luogo. La prima cosa che vedi passeggiando per i viali alberati dell’area universitaria sono un gruppo di ragazze, tutte con la stessa maglietta, che si allenano per il prossimo torneo di pallavolo. Poco più avanti un gruppo di ragazzi nel campo di baseball, si diverte incitato dalle cheerleader, mentre sulla sinistra un professore seduto sulla panchina si collega alla rete wireless dell’ateneo. Tecnologia e sport sono due parole chiave, denominatore comune tra tutti i college degli Stati Uniti.
I latini hanno inventato il modo di dire “mens sana in corpore sano”, ma sono gli americani a metterlo in pratica. L’attività fisica, qui, è parte integrante del corso di studi: anche se sei uno sfigato che non sa tenere in mano una palla, qualcosa ti toccherà fare. Come si vede in molti film ambientati nelle stanze del sapere statunitensi (non ultimo 21), quello che prevale però non è la competizione: quella non manca mai, è parte del DNA di qualsiasi americano, ma si accompagna sempre alla cooperazione. Qui sanno che “insieme è meglio” per tutti: e glielo insegnano a partire dalla scuola.
L’ora della ricreazione
Cosa che manca completamente da noi: ricordo alle superiori che l’ora di educazione fisica era il momento per imboscarsi con l’eventuale fidanzatina, oppure per provare le emozioni forti di una canna. Sicuramente tutto si faceva, tranne che prendere sul serio il professore. Qualcuno ci provava, più per passione personale, che per spirito di gruppo. Non parliamo poi dell’università italiana: dove ho studiato io c’era il centro universitario sportivo, ma conciliare corsi normali ed attività fisica era spesso impossibile. E poi diciamola tutta: senza un minimo incentivo (qui si ottiene un punteggio valido al calcolo del voto di laurea) che gusto c’è: in Italia “non si canta messa senza soldi” dice un noto proverbio dalle mie parti.
Chi ben comincia…
Insomma, un’ennesima occasione perduta per il sistema educativo italiano: un posto dove spesso regna la competizione, dove chissenefrega di usare una scollatura se si può ottenere un voto più alto, dove il figlio dell’amico del professore è spesso il primo della classe. Poi non bisogna lamentarsi se, come disse il Censis ad inizio anno, la società italiana è in putrefazione: si raccoglie semplicemente quello che si semina. Gli americani seminano la cooperazione nella testa dei loro giovani. Tutta la società ringrazia.
Commenti
Ti insegnano, insomma, a vivere lo spirito di squadra. Cosa fondamentale per integrarsi, un giorno, in un ambiente lavorativo o comunque nella società in generale.
Qui fortunatamente esistono altre realtà che – tentano di sopperire – a queste lacune (che imho più che strutturali, sono culturali).
Ciao,
Emanuele
Già, come hai ragione. Non sappiamo lavorare in gruppo, tendiamo spesso a farci le scarpe senza ragioni specifiche.
Tristezza immensa…
Quanto avrei voluto fare un annetto di università negli stati uniti, purtroppo ho perso la mia occasione, stupidamente.
Emanuele, in effetti i boyscout fanno parecchio in questo senso. Hai pienamente ragione: le lacune culturali vanno tappate in questo modo. Credo che ogni ragazzo o ragazza che faccia quell’esperienza, sia poi come un seme che germoglia ed a sua volta produce frutti nel posto in cui viene piantato.
Lady Chobin, vabbè vorrà dire che ci verrai in vacanza.
Ithilien, per carità… lungi da me il generalizzare questo stato di cose. Anche io ho bellissimi ricordi di gruppi di lavoro, in cui si era formato un clima tranquillo e cooperativo: non dimenticherò mai i nostri “brainstorming” che nascevano da un’idea o da una semplice osservazione. E certo non voglio dire che qui è tutto rose e fiori: i “pescecani” ci sono anche nei palazzi di Wall Street, colleghi pronti a farti le scarpe per nulla 🙂
E’ una cultura diversa. Noi in gruppo non sappiamo rapportarci… purtroppo! Non condividiamo il ns. “know-how” con gli altri per paura che poi qualcuno sappia più di noi, cosa immensamente sciocca. Purtroppo non siamo abituati ad ottimizzare le ns. risorse, anzi quasi ci isoliamo. Gli sport universitari da noi sono scarsamente praticati perchè diventerebbe ingestibile il binomio studio/sport. Dispiace soprattutto che si stia facendo poco per cambiare, anzi siamo sempre una societa’ più individualista (dal mondo della politica a quello del lavoro).
Però mi piace pensare che non è sempre così, ho incontrato persone con cui lavorare in gruppo è stato quasi naturale… sono poche ma ci sono 🙂
Ti faccio un piccolo esempio. L’altro giorno stavo ripetendo a mia sorella, in previsione dell’esame, alcuni capitoli di “ingegneria del software”. Parlavo dell’organizzazione e dei passi necessari per definire un software: individuazione dei ruoli, scelta dei compiti, divisione in team, riunioni di verifica, tecniche di svolgimento delle riunioni, etc…
Beh, lei (scout, e non ancora “capo”… e dunque con la semplice visione da “ragazza in crescita”) al volo ha colto la similitudine col metodo scout. Senza rendersene conto infatti, agli scout si *organizza in team*, si danno delle scadenze, si individuano dei ruoli, ci si incontra per discutere qualcosa… etc.
Secondo me questo, all’università, potrebbe esser fatto con gli sport di squadra ma non solo. Il problema è che le facoltà da noi sono letteralmente intese come “centro studi per singole entità”. Non c’è completamente il concetto di “gruppo di lavoro” che si sta formando per essere competente in futuro.
Ciao,
Emanuele
Emanuele, ho sempre ammirato lo spirito dei boyscout, anzi sarebbe bello se le istituzioni ed i mezzi di informazione, si accorgessero più spesso di loro. Per trasmettere alla gente quella solidità di valori che voi riuscite a costruire e custodire con tanto amore e tanta forza.