Ricordo l’ultimo giorno in Italia come se fosse ieri. La moglie era partita da alcune settimane, per iniziare la caccia al lavoro nel nuovo Continente in modo che almeno uno dei due potesse portare la pagnotta a casa, in questa fase di transizione. Io dal canto mio avevo iniziato la frenetica ricerca di un impiego, spedendo curriculum a destra ed a manca, e racimolando un cospicuo bottino di 5 colloqui nelle prime due settimane, tutto tramite Internet (benedetto sia chi l’ha inventata). L’appartamento che ci aveva ospitati per 5 anni in Italia era oramai completamente vuoto, l’automobile era stata venduta (portarla qui in America costava 3000 dollari, più tutte le pratiche per l’omologazione), gli amici erano stati salutati. Tutto era pronto, insomma, per questo salto nel buio.
In realtà tanto buio non era: mia moglie, essendo nata e cresciuta in America, non era certo sprovveduta. Il mio datore di lavoro italiano, a sua volta, mi concedeva un’aspettativa non retribuita di 1 anno per motivi personali: una rete di protezione non indifferente, a ben pensarci. Ed infine il cambio favorevole (per me) tra euro e dollaro, che gonfiava magicamente i risparmi che avevamo da parte. Insomma, non ero certo l’immigrato con la valigia di cartone che s’imbarcava alla ricerca di miglior fortuna.