La scorsa settimana abbiamo scoperto insieme l’inizio dell’affascinante storia di come le auto elettriche fossero state, quasi in maniera inimmaginabile oggi, davvero popolari alla fine del 1800, prima di cadere nel dimenticatoio per circa un secolo. Lo stimolo che spinse scienziati ed imprenditori ad investire in quella tecnologia, come abbiamo visto, era l’insostenibilità della locomozione equina, con tutti i problemi legati al letame ed in generale alla gestione di un parco animali così ingente. Problemi simili a quelli che ci troviamo ad affrontare oggi, tra inquinamento e cambiamenti climatici dovuti all’eccessivo quantitativo di anidride carbonica che la società moderna produce per le proprie attività. Chissà che ancora una volta l’auto elettrica non si riveli la soluzione a questi problemi, ammesso e non concesso che si riesca a studiare una tecnologia più efficace e meno inquinante del litio. Continuiamo allora il nostro viaggio storico alla scoperta del signor Whitney e del suo sogno di produrre milioni di auto elettriche.
Forse l’esempio più notevole, agli occhi moderni, di come le cose sarebbero potute andare diversamente per i veicoli elettrici è la storia dell’Electrobat, un taxi elettrico che fiorì brevemente alla fine degli anni ’90 dell’Ottocento. L’Electrobat era stato creato a Filadelfia nel 1894 da Pedro Salom e Henry Morris, due scienziati-inventori entusiasti sostenitori dei veicoli elettrici. In un discorso del 1895, Salom derideva “il meccanismo di guida meravigliosamente complicato di un veicolo a benzina, con le sue innumerevoli catene, cinghie, pulegge, tubi, valvole e rubinetti… Non è ragionevole supporre, con così tante cose che possono danneggiarsi, che uno di essi sarà sempre fuori servizio?”
I due uomini perfezionarono il loro progetto iniziale, producendo infine un veicolo simile a una carrozza che poteva essere controllata da un guidatore su un sedile alto sul retro, con un sedile più ampio per i passeggeri nella parte anteriore. Nel 1897 Morris e Salom lanciarono un servizio taxi a Manhattan con una dozzina di veicoli, servendo 1.000 passeggeri nel loro primo mese di attività. Ma i taxi avevano un’autonomia limitata e le batterie impiegavano ore per ricaricarsi. Così Morris e Salom decisero di unire le forze con un’altra azienda, la Electric Battery Company. I suoi ingegneri avevano ideato un sistema di sostituzione della batteria, con sede in un deposito a 1684 Broadway, che poteva sostituire una batteria scarica con una completamente carica in pochi minuti.
Nel 1899 questo promettente affare attirò l’attenzione di William Whitney, un politico e finanziere di New York, che aveva fatto fortuna investendo in tram elettrici. Il signor Whitney sognava di stabilire un monopolio sui trasporti urbani e immaginava flotte di taxi elettrici operanti nelle principali città del mondo, che fornissero un’alternativa più pulita e silenziosa ai veicoli trainati da cavalli. Invece di acquistare automobili, che erano ancora ben lontane dall’essere accessibili alla classe media, gli abitanti delle città usavano taxi elettrici e tram per spostarsi. Ma realizzare questa visione voleva dire costruire le Electrobat su scala molto più ampia. Così Whitney e i suoi amici avviarono una collaborazione con Pope, produttore del veicolo elettrico Columbia, il più popolare dell’epoca. Crearono una nuova azienza, la Electric Vehicle Company, che avviò un ambizioso piano di espansione. EVC raccolse capitali per costruire migliaia di taxi elettrici ed aprì uffici a Boston, Chicago e Newport. Nel 1899 divenne persino la più grande casa automobilistica degli Stati Uniti.
Sfortunatamente l’organizzazione dei taxi nei grandi centri urbani si rivelò presto mal gestita, e stentava a produrre profitti. Ripetute riorganizzazioni e ricapitalizzazioni iniziarono a suscitare il sospetto che si trattasse solo di una truffa finanziaria. Negli anni successivi, quando le automobili a benzina iniziarono a costare meno e si mostravano più performanti e convenienti da usare, i veicoli elettrici assunsero la connotazione di “auto da donna”, perché erano adatti per brevi viaggi locali, non richiedevano l’avviamento a manovella o il cambio marcia per funzionare ed erano estremamente affidabili in virtù del loro design con pochi componenti. Come diceva una pubblicità per i veicoli Babcock Electric nel 1910, “Chi guida una Babcock Electric non ha nulla da temere”. L’implicazione era che le donne, incapaci di far fronte alle complessità della guida e della manutenzione di veicoli a benzina, avrebber fatto meglio ad acquistare veicoli elettrici. Gli uomini, al contrario, erano considerati meccanici più capaci, per i quali una maggiore complessità e una minore affidabilità erano prezzi che valeva la pena pagare per veicoli potenti e maschili con prestazioni e autonomia superiori.
Due produttori, Detroit Electric e Waverley Electric, lanciarono modelli nel 1912 che si diceva fossero stati completamente ridisegnati per soddisfare le donne. Oltre ad essere elettriche, erano azionate dal sedile posteriore, con un sedile anteriore rivolto all’indietro, per consentire al guidatore di chiacchierare con i suoi passeggeri, ma che rendeva difficile la visione della strada. Pare che persino Henry Ford abbia comprato a sua moglie Clara una Detroit Electric piuttosto che una delle sue Model T. Ad alcuni uomini probabilmente piaceva il fatto che l’autonomia limitata delle auto elettriche significasse che l’indipendenza concessa ai loro conducenti era strettamente vincolata.
Quell’anno, Henry Ford confermò le voci secondo cui stava sviluppando un’auto elettrica a basso costo in collaborazione con Thomas Edison. “Finora il problema è stato costruire una batteria di accumulo leggera che potesse funzionare per lunghe distanze senza ricaricare”, scrisse il New York Times, mettendo il dito sulla principale piaga dell’auto elettrica. Ma la produzione fu ripetutamente ritardata, poiché Edison non riusciva a trovare la soluzione per sostituire le pesanti e ingombranti batterie al piombo utilizzate per alimentare le auto elettriche. Alla fine, l’intero progetto venne accantonato nell’indifferenza generale.
Il fallimento dei veicoli elettrici all’inizio del XX secolo e l’emergere del motore a combustione interna come forma di propulsione dominante furono legati al fatto che il carburante liquido producesse molta più energia per unità di massa rispetto a una batteria al piombo. Ma come abbiamo visto, la spiegazione non è puramente tecnica. Aveva anche una componente psicologica: gli acquirenti, allora come oggi, non volevano sentirsi limitati dall’autonomia della batteria di un veicolo elettrico, e dall’incertezza di poterla ricaricare.
Riusciremo ad imparare da quegli errori, a cent’anni di distanza?