Da qualche anno, qui in America, anche i vegani possono addentare un bell’hamburger succulento e che s’avvicina molto, in termini di consistenza e sapore, al corrispondente prodotto derivato da proteine animali cresciute nel modo tradizionale che usiamo da una manciata di millenni a questa parte. Era il 2011 quando il signor Patrick Brown cominciava i suoi esperimenti per inventare quello che sarebbe poi diventato l’hamburger impossibile: un prodotto che replicasse tutte le caratteristiche tipiche della carne, incluso il metodo di cottura. Da qui l’esigenza di prestare attenzione anche ai dettagli, come la possibilità di una cottura al sangue, elemento che, sempre secondo il signor Brown, fa concretamente la differenza per convincere i più scettici e schizzinosi. Per ottenere questo risultato, i ricercatori hanno sviluppato un composto organico chiamato eme, derivato dal sangue, dove contribuisce al trasporto dell’ossigeno nel corpo.
Il processo produttivo dell’hamburger impossibile consiste quindi sia nell’estrarre questa sostanza dalle piante che ne contengono tanta, come legumi e soia, sia dal produrla sinteticamente in laboratorio. Tramite un processo di fermentazione simile a quello usato per fare la birra, si riesce a scatenare una reazione che produce ingenti quantità di eme a costi accessibili. Il che ha permesso al signor Brown di avviare una produzione industriale, e di cominciare a vendere i suoi dischi di carne a ristoranti e catene della grande distribuzione. Oggi l’Impossible Burger qui lo si trova persino allo ShopRite, e non costa molto di più di un hamburger tradizionale, che è la chiave per sperare in una penetrazione del mercato più capillare di quanto gli scienziati ci abbiano promesso finora.
Pensavo a tutto questo mentre leggevo un articolo in cui l’autore fa delle considerazioni sui commenti espressi recentemente dai politici sulle carni sintetiche, e su come gli italiani preferiscano invece la genuinità dei prodotti alimentari naturali. Partiamo dal fatto che oramai di davvero naturale sulla nostra tavola (a meno che non ti coltivi le tue verdure nell’orto dietro casa, e forse neppure in quel caso) c’è davvero poco. I famigerati prodotti geneticamente modificati esistono da molto più di una quarantina d’anni: il miglioramento genetico delle piante, ad esempio, risale a quando i Babilonesi e gli Egiziani effettuavano i primi incroci per selezionare i mutanti di piante di loro interesse. Le tecniche di manipolazione genetica moderna non hanno fatto altro che mettere il turbo a queste pratiche, evitando di dover aspettare un ciclo di coltura per raccogliere i nuovi semi. Lo stesso vale per gli animali, da sempre incrociati per ottenere bestie più resistenti, più saporite, più adatte al fabbisogno crescente della popolazione mondiale.
Che poi il presidente del Consiglio voglia promuovere il made in Italy è un’altra storia, e quello non può che farmi piacere. Ma bisogna anche ricordare che gli allevamenti di bestiame da macello da tempo sono responsabili del processo di deforestazione in atto a livello globale. Una mucca deve ingurgitare un sacco d’erba e mangimi prima di essere grande abbastanza da poter diventare bistecche e cotolette, e bere ettolitri d’acqua nel frattempo. E gli escrementi che produce in quest’arco di tempo inquinano l’ambiente e creano più anidride carbonica e metano di quanto si possa immaginare. Certo, in alcuni casi quel metano viene convertito in gas naturale per uso civile, ma non sempre. Insomma, se si pensa che per fare una bistecca, stando alla PETA, ci vogliono 4000 litri d’acqua e qualche quintale di mangime, si capisce subito come alla lunga, questo sia un processo insostenibile, in un contesto dove la popolazione mondiale ha sfondato gli 8 miliardi di persone.
E così, tornando all’articolo che citavo prima, ho scoperto che anche in Italia, in quel di Trento, la società BrunoCell sta facendo i primi timidi passi avanti nel trovare soluzioni alternative e più vantaggiose per l’ambiente (ma anche più etiche, visto che non prevedono l’abbattimento di animali):
“Noi non stiamo producendo carne artificiale” dichiarano i due professori a capo del progetto nei laboratori del Cibio. “La nostra è attività di ricerca, creiamo cellule per un possibile sviluppo in questo ambito. Ma non siamo in competizione con nessuno, il nostro è un obiettivo ben più ampio: risolvere un problema etico e di sostenibilità ambientale con lo scopo di trovare una possibile soluzione per il futuro: nel 2050 saremo tra i 9,5 e i 10 miliardi sulla Terra da sfamare. La carne sarà sempre meno in rapporto alla popolazione e ci sono già paesi che non possono permettersela. Produrla in laboratorio, in futuro, significherebbe meno anidride carbonica, meno allevamenti intensivi, meno deforestazione e minor consumo di acqua. L’Europa sta andando in questa direzione e non sarebbe giusto rimanere indietro”.
La BrunoCell segue un approccio diverso, estraendo alcune cellule staminali dal sangue della mucca, ed usando procedimenti di fermentazione per farle moltiplicare, dando loro le istruzioni giuste per diventare fibre muscolari, tessuto adiposo (eh già, perché senza un po’ di grasso, che gusto c’è?) e via dicendo. Al momento pare riescano solo a far crescere ammassi di cellule senza una forma ben precisa, e dicono che ci vorrà ancora qualche anno prima di avere una vera e propria bistecca “coltivata”. Quindi per ora si limitano a compattare questi ammassi proteici in forma di hamburger, e pare che tecniche simili siano già autorizzate alla commercializzazione in Israele e Singapore. Senza torcere neppure un capello (o quasi) alla povera mucca, e con buona pace di ambientalisti e vegani (e qualche mugugno degli agricoltori).
Personalmente ho già assaggiato più volte l’hamburger a base di eme, e devo dire che il gusto, la consistenza e l’apparenza sono incredibilmente simili a quello classico a base di proteine animali. Ritengo che questa sia la sola strada possibile per soddisfare il nostro bisogno di proteine in maniera sostenibile, ecologica ed eticamente accettabile. Sempre meglio che sgranocchiare grilli arrosto (almeno per il momento).
Commenti
Bloomberg Businessweek ci ha dedicato una copertina, sembra con riscontri non buoni, almeno rispetto ai ritorni sugli investimenti fatti.
Risposte al commento di Luca
Ho notato anche io che le mie azioni di Beyond Meat si sono sgonfiate negli ultimi anni. Capisco lo scetticismo nei confronti di questi derivati ultraprocessati, ma l’alternativa è continuare a deforestare il pianeta per far spazio per l’immensa quantità di pascoli, oppure tenere queste bestie (come diceva la citazione sul tuo blog in questi giorni) in condizioni disumane. Forse la strada dei ricercatori trentini è quella più promettente a questo punto?
Sono sicuro ti interessi.
Risposte al commento di Luca
Grazie per il link, che sembra voler dipingere un quadro opposto a quello dell’articolo di Bloomberg Businessweek, che invece si basa ahimè solo sui freddi numeri. Il fatto che questi prodotti alternativi non abbiano attecchito come si sperava, secondo me, è legato all’offensiva dell’industria della carne, in America ma anche nel resto del mondo. Queste aziende fanno presto a gettare un alone di sospetto sui prodotto alternativi, e la gente abbocca più facilmente del previsto. Intanto, come dicevo nel commento qui sopra, l’alternativa sono deforestazione ed allevamenti di massa.