due chiacchiere

Artemis 1, missione conclusa nel silenzio generale

Un paio di mesi fa la navicella spaziale Orione, parte della missione Artemis I, è rientrata sulla Terra. Ancora una volta, i giornali non hanno dedicato molto spazio all’evento, evidentemente più interessati al 41 bis che al futuro dell’umanità. Ora Orione è tornata al Kennedy Space Center, e la NASA ha iniziato la lunga fase di analisi dei componenti, inclusi i manichini imbottiti di sensori che simulavano la presenza di essere umani a bordo. Qualcuno allora potrebbe chiedere: ma scusa, non mandiamo astronauti sulla Stazione Spaziale Internazionale in continuazione? Perché fare degli esperimenti con dei manichini? La spiegazione è abbastanza semplice: la Stazione Spaziale Internazionale si trova all’interno dell’orbita bassa terrestre, a circa 400 chilometri di altezza (pensa un po’, mettendo l’Italia in verticale, è come dire la distanza in linea d’aria tra Roma e Milano), quindi protetta dal campo gravitazionale magnetico della Terra contro le radiazioni cosmiche e gli spruzzi di particelle solari. La Luna è ben più lontana, a circa 380 mila chilometri dal nostro pianeta, ed un viaggio intorno al satellite è molto più complicato dal punto di vista fisiologico e logistico.

Tant’è che ancora oggi io sia convinto che il fatto che gli americani siano riusciti a mettere piede sul nostro satellite naturale negli anni Sessanta, quando i computer erano grossi come un piano di un edificio ed avevano una potenza di calcolo minore dei nostri cellulari di oggi, abbia un che di straordinario, viste anche le conoscenze limitate del cosmo che erano disponibili all’epoca. La complessità di queste missioni non è tanto nella partenza (che certo non è una passeggiata, come i recenti test di SpaceX dimostrano), ma nel ritorno: gli scudi termici devono resistere a temperature di migliaia di gradi, e mantenere allo stesso tempo condizioni ragionevoli per non cuocere alla piastra i passeggeri della capsula.

Per questo motivo, gli scienziati di Artemis hanno sperimentato una nuova manovra di “caduta attutita”, la chiamerei io. In gergo tecnico prende il nome di skip re-entry e consiste sostanzialmente nel dividere la caduta in due fasi, separate da una specie di rimbalzo in alta atmosfera. Praticamente, a una quota di circa 60 km dal suolo la capsula ha usato la propria velocità per comprimere l’aria sotto di sé e sfruttare la sua portanza per ricevere una spinta verso l’alto dall’aria stessa, perdendo così buona parte della sua velocità. Tutto è andato come previsto, e già c’è attesa per la seconda fase di questo progetto, che vedrà finalmente l’uomo rimettere piede sulla Luna. Sempre che i Cinesi non arrivino prima.

Commenti

  1. Paolo
    ha scritto:

    Campo magnetico, non gravitazionale.

    Lo skip re-entry è simile a quando si cerca di far fare i saltelli a una pietra piatta su una superficie d’acqua. Era già stato previsto per il programma Apollo, compreso nel software di bordo. Non fu messo mai in pratica perché il computer di bordo non consentiva di calcolare il punto di ammaraggio con la precisione necessaria per un agevole recupero degli astronauti.

    I cinesi ci sono già arrivati prima. E proprio con la loro prima missione di ritorno dalla Luna Chang’e 5

    Risposte al commento di Paolo

    1. ha scritto:

      Grazie Paolo, ho corretto il refuso.

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