Da qualche mese è entrata in vigore, in maniera del tutto inosservata, una direttiva europea che potrebbe rischiare di cambiare per sempre il modo in cui i cittadini del Vecchio Continente navigano in rete. Strano che quando il precedente governo Berlusconi propose quella che fu subito ribattezzata la “legge bavaglio”, in rete si scatenò il finimondo, inclusi scioperi virtuali, fiumi d’inchiostro sulle prime pagine dei giornali nazionali e chi più ne ha, più ne metta; mentre per quest’iniziativa comunitaria l’opinione pubblica sia stata completamente lasciata al buio.
La legge del biscotto (o cookie law, per usare il soprannome inglese dall’intrigante doppio senso) obbliga qualsiasi azienda con un sito web rivolto a cittadini dell’Unione a richiedere loro il permesso prima di “installare un cookie” sul loro computer. L’iniziativa, certamente lodevole nella teoria, mira a difendere il diritto alla riservatezza dei visitatori, ma rischia di affossare il già provato mercato delle transazioni online.
La cosa buffa, comunque, è che proprio i siti dei promotori di questa normativa, il Gruppo di Lavoro sull’Articolo 29 (punto di riferimento per le varie autorità europee sulle questioni di protezione dei dati) ed il Supervisore Europeo sulla Protezione dei Dati, entrambi non rispettano, ad oggi, la legge in questione.
Alcuni hanno provato a giustificare il fatto dicendo che la legge si applica, tecnicamente, solo agli “Stati Membri” dell’Unione Europea, e quindi (in un’argomentazione degna del miglior Azzeccagarbugli) non alle istituzioni sovranazionali come i due organismi in questione. Che come spiegazione lascia alquanto a desiderare, senza considerare che dare il buon esempio sarebbe stata la scelta migliore per invogliare altre istituzioni a seguirli a ruota. Ma la coerenza, di questi tempi, è una qualità che i grandi capoccia europei proprio non riescono a dimostrare.
Finora non ho ancora visto nessun sito, pubblico o privato, italiano o europeo, chiedermi il consenso prima di depositare un piccolo biscotto all’interno del mio computer. E conoscendo la lentezza di reazione dell’amministrazione pubblica nazionale, dubito che ciò accadrà molto presto. In fondo basta guardare allo stato di applicazione delle norme in materia di accessibilità dei siti web della pubblica amministrazione: a più di otto anni dall’emanazione delle direttive, la stragrande maggioranza di questi portali ancora include contenuto tutt’altro che accessibile. Intanto in Inghilterra le aziende che non rispettano la legge stanno già ricevendo multe fino a 500.000 sterline. Come se non avessero già abbastanza grane a cui pensare.
PS: almeno il sito delle Olimpiadi è in regola 😉
Commenti
Mi sembra ben diversa dalla legge bavaglio, così, ad occhio.
Ciao,
Emanuele
Risposte al commento di Emanuele
@Emanuele: assolutamente d’accordo, però ugualmente è una legge che, se le autorità decidessero di fare controlli a tappeto, “ammazzerebbe” dai giornali online alle aziende, dai blog alle associazioni senza scopo di lucro, ti sembra poco? In Inghilterra sono fioccate multe fino a 500.000 sterline, t’immagini se la piccola azienda di Voghera che stenta a decollare viene colpita da una multa del genere?
Invece in Inghilterra ce l’hanno TUTTI, ma davvero tutti. Ad esempio mi vengono in mente i siti di TFL transport for london e Argos, ma ce l’hanno davvero tutti
Risposte al commento di Lorenzo
@Lorenzo: gli inglesi e i tedeschi sono al momento gli unici ad aver preso questa direttiva sul serio, da quello che leggo in giro sul web.
http://goo.gl/Iutpf
Risposte al commento di elfonora
@elfonora: fantastica!