Lo scorso fine settimana stavo strappando le erbacce che imperterrite continuano a crescere nelle mie aiuole. Il nostro anziano vicino, un bisnonno che è solito farsi una passeggiata intorno all’isolato a quell’ora, mi vede e così ci mettiamo a scambiare due parole per aggiornarci su come vanno le cose. Lui ancora parla spesso di sua moglie Marilyn, che è venuta a mancare un paio d’anni fa, e di tutte le cose che hanno fatto durante i quasi 50 anni di matrimonio in cui sono stati insieme. Così mi è venuta l’ispirazione per questo post, alla fine del quale voglio farti una domanda. Devi sapere infatti che Marilyn era malata da tempo, un male ai polmoni di cui però nessuno tranne lei sapeva nulla. Non essendoci particolari indizi esterni di una malattia grave, la signora era riuscita a nascondere il problema, d’accordo con il suo medico curante, continuando a vivere la propria vita come se nulla fosse, inclusi viaggi e divertimenti.
La sua battaglia è durata più di un anno, come è stato spiegato ai parenti dal medico, ma soltanto nelle ultime due settimane le cose sono arrivate al punto in cui non si poteva più far finta di nulla sulla gravità della malattia, e quindi l’hanno ricoverata per lasciarle vivere quegli ultimi giorni in maniera meno dolorosa. Io ricordo quando li vedevo passeggiare insieme, mi salutavano sempre, e lei mi raccontava della sua passione per certi fiori che aveva sul davanzale di casa, e di quanto le piacesse l’odore della pacciamatura che io mettevo nelle aiuole. A natale ci mandavano sempre una cartolina di auguri, e quando ci trasferimmo in questa casa, furono tra i primi a darci il benvenuto. Insomma, una coppia tranquilla, che riusciva a godersi quell’angolino di serenità costruito con sacrificio negli anni, attorniati dalla loro grande famiglia fatta di figli, nipoti e pronipoti.
Penso a Marilyn quando vedo altri miei conoscenti che invece, completamente sopraffatti dall’ipocondria, vivono in un continuo stato d’ansia, inseguendo in maniera frenetica e disperata un’illusione di salute ed un’oasi di benessere mentale che non troveranno mai. Persone che corrono da un medico all’altro, trascinando in questo vortice di negatività coloro che gli stanno intorno, incluso il sottoscritto. Non si accorgono che, nonostante tutti gli sforzi per estendere la quantità della loro vita, piuttosto che la qualità, arriveranno comunque al capolinea e finiranno per rendersi conto di aver sprecato anni in un’impresa impossibile. Allora mi chiedo se la scelta di Marilyn, che ha invece deciso di non angustiare i suoi cari, sia giusta o sbagliata. Io la mia opinione credo di essermela fatta, ma come in Chi vuol essere milionario, non voglio influenzare il pubblico. Tu come ti comporteresti nei suoi panni?
Commenti
Come vivrei io una situazione del genere ancora non lo so, non in maniera certa. Sicuramente non nasconderei il mio stato a chi amo e mi sta accanto e quello che so per certo è che prima di soffrire o raggiungere livelli acuti di una malattia, ricorrerei all’eutanasia
Risposte al commento di DANIELE VERZETTI ROCKPOETA®
Entrambe le scelte (dire o non dire) sono ovviamente coraggiose. Ogni situazione poi ha le sue complessità, e come dici giustamente tu, non è facile prevedere come si reagirebbe in un caso del genere. Per me, l’aggravante è il costo della sanità americana. Lo so che è una scelta cruda e fredda, ma se devo decidere tra dare tutti i miei soldi ad un ospedale, magari obbligato a vendere la casa, per estendere la mia presenza su questa Terra di qualche mese, e lasciare quei soldi, per i quali mi sono tanto sacrificato, ai miei cari, preferirei di gran lunga la seconda.
La penso come Marilyn, a volte a dire il vero affronto questo tema anche in casa, magari solo di sfuggita.
Non li voglio i tubicini addosso. Non voglio fare mille cure, girare gli ospedali, cercare i luminari della medicina. Le cose vadano come devono andare, ma io sono concorde con la sua scelta.
Risposte al commento di Katrina Uragano
Ed io la penso esattamente come te 🙂 Tant’è che quando abbiamo fatto testamento un paio d’anni fa (si, una cosa inusuale per persone relativamente giovani come noi), io ho espressamente indicato di non voler essere attaccato alle macchine, in caso di coma irreversibile, ecc.
Vorrei poter dire che sì, meglio non dire niente e godersi il tempo che rimane, liberi dalla necessità di pensare a un futuro ormai fuori discussione; d’altro canto però non riesco a non mettermi nei panni della famiglia, con il loro sgomento e magari con la sensazione di essere stati traditi.
In fondo, quando scegliamo di condividere la vita con qualcuno e di avere dei figli, non rinunciamo almeno in parte alla facoltà di prendere certe decisioni da soli?
La solitudine può essere prigione o libertà, dipende dalla persona e dalle circostanze.
Risposte al commento di Mondo in Frantumi
Si in effetti bisogna mettersi nei panni di entrambe le parti.