due chiacchiere

Una montagna di dati per una sanità migliore

Quand’ero giovane ed ingenuo credevo nel potenziale positivo che grandi quantità di dati avrebbero avuto nel trasformare la società in cui viviamo. Mentre all’università imparavo le tecniche del cosiddetto data mining, la mia mente s’inventava scenari fantascientifici in cui algoritmi complicatissimi riuscivano a scoprire come curare certe malattie, rastrellando e spulciando tra milioni di fascicoli di pazienti alla caccia di sequenze familiari. Oggi quelle farneticazioni sono diventate realtà, con tutta l’intelligenza artificiale di cui siamo circondati. Peccato che l’avanzamento tecnologico sia frenato dalla paura (più che giustificata, sia ben chiaro) che questi dati vengano usati dalle grandi multinazionali per fare montagne di soldi, e non per il bene dell’umanità. Che tristezza doversi arrendere di fronte alla cruda verità secondo l’uomo è solo preoccupato per il portafogli.

Immaginiamo però per qualche momento che questa sete di denaro non esista, e che il progresso tecnologico si possa davvero applicare a migliorare le nostre condizioni di vita. In questo contesto, i nuovi strumenti di big data offrono allettanti prospettive: fornire migliori diagnosi, aumentare l’efficacia degli attuali metodi di trattamento e trovare nuove cure con molti meno sforzi rispetto a metodi di ricerca tradizionali. D’altro canto, se l’intelligenza artificiale è già in grado di disegnare qualsiasi cosa le chiediamo, o di scrivere codice quasi impeccabile basandosi su una semplice descrizione del problema da risolvere, immagina cosa potrebbe fare se avesse a disposizione tutta la storia clinica di centinaia di milioni di persone.

La ricerca medica tradizionale, che oggi passa tramite lunghi e complessi studi o indagini, potrebbe divenire più economica e veloce nel condurre indagini cliniche per sperimentare un nuovo farmaco, per valutare l’efficacia di nuovi trattamenti o per meglio comprendere le cause di determinate patologie. I dati, in realtà, ci sono già (prodotto di scarto dei tanti studi che si fanno oggi), ma sono spesso archiviati senza ulteriori analisi, nonostante potrebbero aiutare altri ricercatori ad indagare ambiti di ricerca correlati. E poi si tratta di dati frammentati, spesso non categorizzati ed organizzati in maniera che un computer li possa spulciare facilmente. E dire che molti di noi oggi indossiamo dispositivi e sensori in grado di raccogliere e catalogare questi dati in maniera precisa ed efficiente. Sensori che potrebbero aprire la porta a cure personalizzate basate sulla nostra individuale storia clinica. In questo mondo ideale avrebbe persino senso farsi mettere un microchip sottopelle, non trovi?

Peccato che tutto questo rimarrà, almeno nel futuro prossimo, soltanto un sogno irrealizzabile, affossato dalla zavorra della protezione dei dati sensibili, unico baluardo a tenere a bada le fauci delle aziende pronte a vendere l’anima pur di mettere le loro manacce oleose e puzzolenti su quei dati.

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