due chiacchiere

Don’t worry darling

Non riuscivo a credere alle mie orecchie quando, qualche settimana fa, la figlia grande mi raccontava la trama di questo film che qualcuno le aveva consigliato a scuola, Don’t worry darling. Prima di continuare, però, devo subito mettere l’avviso ai naviganti, perché nel seguito parlerò della trama del film con uno spoilerone gigante che svela il finale. Quindi se non vuoi rovinarti la sorpresa, per oggi puoi anche fermarti qui. E come diceva sempre Pozzetto, alias Artemio, “gallo avvisato, mezzo accoppato”. Dicevo del mio stupore nell’ascoltare la storia: ma non perché la consideravo innovativa nel panorama dei film distopici, anzi. Piuttosto perché echeggiava, in maniera sorprendentemente simile, il concetto di un racconto che una quindicina d’anni fa avevo iniziato a pubblicare proprio sulle pagine di questo blog. Concetto tra l’altro ripreso in un episodio di Black Mirror intitolato San Junipero. Così l’ho voluto guardare.

La protagonista passa l'aspirapolvere in salotto in una scena del film

In questo film, la regista Olivia Wilde (che tutti abbiamo apprezzato nella serie tv House) ci trasporta negli Stati Uniti della fine degli anni Cinquanta, e ci presenta gli abitanti di una ridente cittadina di periferia, Victory, che incarna lo stereotipo del sogno americano: mogliettina casalinga che cucina, maritino con la valigetta che va a lavorare, prati immacolati e sole tutti i giorni. E ancora, i cocktail party in giardino e le tavole sempre imbandite. Un glamour per sua natura esteriore, che nasconde però una realtà iniqua, oscura, sinistra. Un’utopia che diventa distopia. In cui pian piano la protagonista si rende conto di essere intrappolato in qualcosa di sintetico, artificiale. Fino alla presa di coscienza finale, secondo me un po’ troppo frettolosa ed abbozzata, di trovarsi all’interno di una realtà virtuale, mentre il suo corpo è immobilizzato in un letto da un marito che voleva una vita diversa per loro due.

L’idea di esplorare lo squilibrio del potere e il controllo dei corpi attraverso la fantascienza distopica degli anni ’50 sembrava promettente, ma sfortunatamente il film di Olivia Wilde si limita a una rappresentazione superficiale. Nonostante la cura per la forma e alcune sequenze coreografiche coinvolgenti, il film sembra più un diorama già visto che non riesce a trasmettere una vera complessità o rivoluzione. Da Matrix a Surrogati con Bruce Willis, ci hanno già provato in tanti, e questa pellicola non risalta certo per originalità del concetto.

Proprio qui, invece, la storia che avrei sempre voluto scrivere ma che non ho mai avuto le competenze per portare avanti, si differenzia dal mucchio: nel dipingere la realtà virtuale in cui si trovano i miei protagonisti sotto una luce positiva, e nel cercare di essere un prequel a tutti questi film. Ne ho già parlato in passato: forse il mondo è pieno di inquinamento, guerre e disordine, proprio per colpa della nostra fisicità, della dipendenza dalle risorse intorno a noi che abbiamo per poter sopravvivere. Come diventerebbe il mondo se invece non dovessimo preoccuparci di tutto quello? Una specie di Minecraft iperrealistico dove ognuno vive la vita che vuole. Spero solo che un giorno ci si arrivi.

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