Siamo in tanti gli italiani emigrati e residenti all’estero, me ne accorgo ogni volta che esco di casa. L’altro giorno ad esempio, al supermercato ho comprato dei filetti di baccalà, altrimenti noto come cod fish qui in America. Il cassiere, un uomo sulla sessantina, lo passa per il lettore e mi fà “baccalà!” in maniera del tutto inattesa. Non poteva sapere che io fossi italiano, ma subito gli ho fatto i complimenti per aver indovinato il nome italiano di quel pesce. E così, mentre passava allo scanner il resto della mia spesa, ha cominciato a raccontarmi di suo padre, emigrato da di Napoli, e della storia della sua famiglia. Episodi come questo me ne capitano di continuo, specialmente qui nel New Jersey, dove esiste una grande comunità di emigrati del Belpaese (come c’insegnava Jersey Shore). A me fa sempre piacere scambiare due chiacchiere (e ti pareva!) con qualche paesano per sbirciare per qualche minuto nella sua storia. Ma quanto si possono considerare ancora veri italiani gli italo-americani?
Questa è una domanda che mi sono fatto di recente, dopo aver ricevuto l’invito ad iscrivermi ad una associazione di italo-americani molto popolare in questa zona. Alla cena di inaugurazione della sezione del paese dove risiedo, erano tutte persone i cui nonni s’erano imbarcati all’inizio del secolo scorso per cercar fortuna in America. All’epoca c’era la fissazione di integrarsi nel tessuto sociale locale, e quindi spesso si smetteva di parlare italiano in casa, in favore della lingua anglofona. Privando di fatto le generazioni successive non solo della possibilità di essere bilingue, ma anche di poter seguire ed apprezzare la propria cultura attraverso la quotidianità dei media. Certo, è pur vero che molti di quegli emigrati non parlasse un corretto italiano, quanto piuttosto il proprio dialetto regionale, molto spesso napoletano o siciliano.
Ed è per questo che, più osservavo gli italo-americani interagire a quella cena, più mi rendevo conto del fatto che queste persone sono americane a tutti gli effetti, con qualche vaga reminiscenza nostalgica degli anni ’60 italiani. Già, per loro è come se il tempo si fosse fermato a Claudio Villa, alla bella vita dipinta da Federico Fellini, e tutto quello che rappresentava il Belpaese nel dopoguerra. Hanno quest’immagine idealizzata di un Paese, ma non ne conoscono la lingua, gli usi e costumi, figuriamoci poi la politica e la quotidianità. D’altro canto, essendo l’America un Paese senza una storia antica rilevante, la cultura tende a mettere in primo piano il cosiddetto heritage, una sorta di trasmissione genetica della cultura, in cui si è costruito nel tempo una mitologia degli antenati. In Europa questa cosa non esiste: non penso di aver mai incontrato nessuno che si definisce italo-tedesco, e che ricorda quasi con nostalgia le proprie origini.
P.S.: conservo a futura memoria la copia del loro giornale in cui annunciano la creazione del nostro club.
Commenti
Coloro che sono fuori Italia da molti anni, magari neanche mai vissuti nel Bel Paese, sono italiani per modo di dire. Nel sangue, diciamo. Nei ricordi raccontati dai vecchi, nelle tradizioni tramandate. Però credo che appartengano più al posto in cui vivono rispetto a quello da cui qualcuno prima di loro è partito. E non c’è niente di male.
Risposte al commento di Katrina Uragano
No, assolutamente, non c’è nulla di male 🙂 Anzi, lo trovo un fenomeno affascinante dal punto di vista sociologico e culturale…
Ho letto da qualche parte che più di 20 milioni di persone negli Stati Uniti hanno origini italiane. Tra un po’ ci saranno più italiani lì che qui… XD
Risposte al commento di Arquen
Stando a Wikipedia, il numero è più o meno quello. Considerando le varie generazioni, secondo me si arriva anche a 30 milioni e passa, ovvero quasi il 10% dell’intera popolazione americana. Per la maggior parte concentrati qui tra New York, Connecticut and New Jersey, e poi ovviamente in Florida a godersi il calduccio.
Torno in questi giorni da Pacentro, Abruzzo, dove ad agosto sembra di stare in California.. famiglie intere che tornano ma non solo dagli Usa, anche da Australia e altri luoghi. Parlavo con un pacentrano emigrato nel ’59, la mia data di nascita, ha fatto i soldi, tornano e comprano casette a distanza siderale per godersele un mese l’anno, porta qui la moglie australiana ogni anno, innamorata del posto ma che spiccica si e no quattro parole di italiano, anzi di abruzzese. Ma qui si ritrovano come in un angolo di terra natìa, la loro lontanissima, mentre per gli abruzzesi che hanno sposato, il legame è comunque fortissimo, sembrano salmoni a risalire la corrente fino a dove si sono generati. Li trovo in piazza a chiacchierare, ridere e bere.. immancabilmente ogni anno, e vengono anche solo per un matrimonio, a tributare un affetto che li lega ancestralmente. Ma tornano a Pacentro, la loro terra, il loro Paese, non in Italia.
Risposte al commento di Franco Battaglia
Bellissimo spaccato di vita di paese. Questi emigrati di “prima generazione” (ovvero nati in Italia), che hanno lasciato l’Italia negli anni 60 vivono in questo limbo eterno: hanno nostalgia del proprio paesello, ma sanno che devono sacrificarsi all’estero per trovar fortuna. Il papà di mia moglie, che oramai non viaggia più per via dell’età avanzata, faceva la stessa cosa fino ad una decina d’anni fa, tornando nel suo paesino sperduto tra i monti beneventani, a fare due chiacchiere con vecchi amici d’infanzia e riposarsi respirando un po’ d’aria buona.
Poi ci sono gli italo-americani di seconda o terza generazione, quelli che ho incontrato io alla cena di cui parlavo: loro non hanno più veri legami o parenti in Italia, se non qualche cugino lontano di cui hanno perso le tracce. Ma non sentono quel richiamo che descrivi tu, perché sono nati e cresciuti in America, seppur in un contesto familiare intriso di italianità. Per loro l’Italia esiste soltanto tramite le foto dei genitori e dei nonni, ed è un posto mitologico e lontano, da visitare con calzoncini corti e scarpe da ginnastica.