Devo ammettere che, quando ho guardato Il principe di Roma con Marco Giallini qualche settimana fa, non ho né letto le recensioni, né guardato il trailer. In questi giorni d’afa estiva volevo solo rilassarmi spaparanzato sul divano e godermi una pellicola in italiano in santa pace. Così ho chiesto a San Google di darmi qualche consiglio, e questo film di Edoardo Falcone era tra quelli suggeriti. Che io abbia un debole per Giallini non è un segreto: da Perfetti Sconosciuti a Rocco Schiavone, ho sempre apprezzato tutti i suoi personaggi, principalmente per quel lato bonario che si cela sotto la scorza ruvida che lui riesce ad interpretare così bene. E così ho premuto il tasto play e mi sono lasciato trasportare nell’Italia dei primi del 1800, quell’Italia già raccontata nei Leoni di Sicilia, che tanto avevo apprezzato all’epoca. Solo che stavolta ci troviamo a Roma (altro mio grande amore!), dove vive l’avido Bartolomeo.

Devo essere sincero, il regista ha saputo giocare proprio bene le sue carte. Le prime scene del film ricordano moltissimo uno dei film più belli di Alberto Sordi, Il Marchese del Grillo. Con abiti costosi e un’ambientazione elegante, lo spettatore è indotto in maniera subdola ad immaginare Bartolomeo come un novello Onofrio del Grillo. D’altro canto Giallini, noto per il suo stile comico, richiama i grandi attori italiani che tanto ci hanno fatto ridere e sognare, eppure la storia che Edoardo Falcone ci racconta ha poco a che fare con il film di Mario Monicelli del 1981. Eh già, perché dopo una ventina di minuti, la trama prende una piega completamente diversa.
Ma riassumiamo un po’ i fatti. Bartolomeo, un po’ come il signor Florio, ha capito che nella società del 1800 la ricchezza non conta molto senza un titolo nobiliare. Ed è così che riesce a mettersi d’accordo con il padre di una donna nobile, insofferente di ogni disciplina. L’uomo, un vero e proprio parassita della società, è pieno di debiti, e non si fa nessuno scrupolo a vendere la figlia a Bartolomeo in cambio di 10.000 scudi. L’affare sembra pronto ad andare in porto, quando uno dei faccendieri di Bartolomeo, che gli deve portare i 10.000 scudi, uccide l’amante della moglie e viene quindi condannato a morte a sua volta. Tutto succede molto in fretta, e così Bartolomeo non riesce a scoprire che fine abbiano fatto i suoi denari prima che il faccendiere sia decapitato.
Per cercare di mettersi in contatto con il defunto, Bartolomeo va a far visita ad una fattucchiera, che però alla fine di una lunga preghiera, non riesce nell’intento. Ed è qui che lo spettatore capisce che il resto del film non è affatto un remake del film di Sordi: si tratta piuttosto di una rivisitazione tutta romanesca del classico di Dickens, Canto di Natale. I tre fantasmi che vengono a trovare Bartolomeo gli faranno capire, poco a poco, tutti gli errori che l’uomo ha fatto nella sua vita, e come sia giunto ad essere la persona dal cuore di pietra che è diventato. C’è però una differenza di fondo tra Bartolomeo e Scrooge: mentre quest’ultimo è il taccagno senz’anima, il personaggio di Giallini ha senso dell’umorismo, saggezza popolare e un disincanto sarcastico.
Secondo me, il piacevole risultato finale è anche merito della scelta del cast: da Sergio Rubini a Filippo Timi, da Giuseppe Battiston a Giulia Bevilacqua, tutti sembrano sapersi calare nel proprio ruolo in maniera genuina e mai sopra le righe. Anche la scenografia e la fotografia sono notevoli, e sembra davvero di essere tornati indietro nel tempo di 200 anni. La passione degli attori per i loro ruoli è palpabile, così come l’amore di Edoardo Falcone per Roma, per la sua storia, le sue strade, i suoi monumenti e il suo dialetto. C’è anche una Roma esoterica, dove i fantasmi si nascondono nei vicoli, sotto i ponti e tra le colonne di San Pietro.
In conclusione, un film che sa essere leggero e piacevole. Non sarà forse una delle produzioni che rimarranno per sempre nel firmamento della produzione cinematografica italiana, ma va benissimo per un sabato sera sul divano a sgranocchiare qualche popcorn.