due chiacchiere

Brevettare i programmi

Da un paio di mesi oramai è iniziata la mia frequenza di un master universitario a tema informatico (certo, dopo una laurea in informatica era duro seguire un master in lettere classiche). Uno dei corsi che ho trovato molto interessante affronta lo spinoso problema della brevettabilità del software, argomento oggi molto discusso ma del quale io per primo mi sono reso conto di sapere molto meno di quello che pensavo. Il professore, un saggio avvocato e docente universitario dall’esperienza concreta nel settore, sostiene che forse il brevetto sarebbe il male minore rispetto al pastrocchio che si prospetta, almeno in Europa. Sono d’accordo: se non ci svegliamo in tempo, arriveremo ancora una volta secondi rispetto ai pragmatici americani, che più che alla fuffa sono interessati alla ciccia.

Un quadro generale

Vorrei iniziare quindi una serie di interventi per riportare quello che il professore ci ha spiegato a lezione, e giungere infine ad un confronto aperto sulla questione. Partirò, seguendo pedissequamente (si dice così?) le sue orme, dal panorama generale della giurisprudenza che regolamenta le opere dell’ingegno per restringere man mano il campo sui programmi per elaboratori elettronici, come li definisce la normativa vigente. Cercando di sgombrare il campo da molti preconcetti, messi spesso in campo da una comunità “open source” che vede nei brevetti il male per eccellenza e vuole evitarli come la peste. Spesso trascinando le persone verso conclusioni errate, senza farle ragionare su tutto l’apparato che vi sta dietro.

Le origini della disciplina del diritto

L’uomo, sin dai tempi delle civiltà Greca e Romana, ha iniziato a regolamentare le varie attività sociali attraverso la costituzione di norme e attività inserite in un codice di diritto. In principio venivano regolate le trattative materiali, mentre poca importanza si dava ai concetti astratti, alle opere d’arte ed ai manoscritti. Solo con l’avvento della Repubblica di Venezia si inizia a capire il peso delle cosiddette “creazioni intellettuali” nell’evoluzione sociale e nel miglioramento della qualità della vita. Ancora oggi, sostanzialmente, il nostro insieme di regole sociali ricorre, in questo campo, alla teoria dell’epoca. In breve tutto ciò che l’uomo può creare con l’intelligenza di cui è dotato, si può classificare in due grandi aree:

  • Opere dell’ingegno: canzoni, romanzi, libri, pubblicazioni, sculture. Ovvero creazioni in cui conta molto la personalità dell’autore e si ricorre a strumenti artistici
  • Invenzioni: un nuovo farmaco, la lampadina, la penna ad inchiostro. In altre parole soluzioni concrete a problemi reali della vita quotidiana, che favoriscono in maniera diretta un progresso “fondamentale” per la collettività (si pensi ad un nuovo farmaco che cura una malattia grave)

Il diritto sottopone le creazioni intellettuali ad una regolamentazione abbastanza diversa, a seconda che ricadano nella prima o nella seconda categoria. Sostanzialmente il legislatore, nel caso delle opere dell’ingegno, considera prevalente l’interesse dell’autore rispetto a quello della collettività che non trae un reale “progresso” (se non culturale) dalla fruizione dell’opera. Per le invenzioni il discorso è diametralmente opposto: viene tutelato l’interesse della collettività a fruirne il più presto possibile, pur riconoscendo all’autore ben precisi diritti sia di natura morale che economica.

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