Il mese scorso ho fatto un giro a Washington, dove sono andato ad accompagnare un amico che partiva per una vacanza in Madagascar (beato lui). Piccola blu, la mia fida Tesla Model 3, ha guidato da sola per circa 4 ore e mezza per giungere a destinazione di fronte al terminal dell’aeroporto Dulles alla periferia della capitale, mentre noi chiacchieravamo tranquillamente del più e del meno. Il volo partiva verso le nove del mattino, e volendo sgranchirmi un po’ le gambe prima di farmi altre 4 ore e mezza di guida, ho deciso di parcheggiare l’auto in centro e visitare uno dei tanti musei in città. Per chi non lo sapesse, quasi tutti i musei di Washington sono completamente gratuiti, basta solo dare il proprio nome e numero di telefono, e ti mandano un codice sul cellulare per entrare. Così ho scelto, su suggerimento dell’amico stesso, di andare a visitare il museo di storia afro-americana. Un viaggio nel passato non adatto alle persone troppo sensibili.

Un viaggio nel tempo che comincia nel 1600, quando le compagnie inglesi si rendono conto dei lauti guadagni che possono fare grazie alle colonie oltreoceano, e cominciano a catturare centinaia di migliaia di uomini in Africa, per mandare avanti le piantagioni di cotone. Questi individui, spiegano le varie installazioni al museo, sono considerati vera e propria merce, barattati e venduti all’asta in lotti in base alla possenza fisica, allo stato di salute, e via dicendo. Individui ammassati a centinaia nelle stive delle navi, ad affrontare un viaggio di qualche mese per attraversare l’oceano in condizioni igieniche che farebbero venire il voltastomaco persino a Dario Argento.

Questo traffico commerciale interessava tre continenti. Le navi iniziavano il loro viaggio partendo dalla Gran Bretagna e dalla Francia in primis: Liverpool, Bristol, Bordeaux, Amsterdam divennero snodi importanti per questo commercio. Lì le navi cosiddette negriere venivano caricate di tutte le merci e salpavano in direzione degli empori che erano stati costruiti lungo le coste dell’Africa occidentale a sud del Sahara. Una volta approdati sulle coste africane, quelle merci venivano usate per comprare gli schiavi, che dunque venivano caricati insieme alle altre merci. Da qui le navi negriere partivano alla volta dell’America dove mettevano in vendita la preziosa merce umana, scambiata a loro volta con altre merci dei prodotti coloniali: principalmente zucchero e cotone.
Il viaggio tra le stanze del museo, devo ammetterlo, mi ha messo una tristezza addosso che non avrei immaginato. Vedere tutte quelle foto, quei reperti, quelle testimonianze, quelle atrocità, mi ha colpito come un pugno allo stomaco. Oggi quei tempi sembrano così lontani e dimenticati, eppure la crudeltà dell’uomo contro l’uomo è sempre presente: nelle guerre che ci facciamo tra nazioni, nella prepotenza commerciale osteggiata tramite la legge del più forte, nell’adorazione del dio portafogli come fine ultimo e come senso ultimo della vita stessa. L’America che si sente così democratica, ha tanti, troppi scheletri nel proprio armadio con cui, ancora oggi, non riesce a fare del tutto i conti.
Unica magra consolazione, mentre mi aggiravo tra i corridoi del museo, è stata di non vedere l’Italia nella lista delle nazioni che si adoperarono nella tratta degli schiavi. Intanto il mio amico dal Madagascar mi manda foto di una povertà assoluta che mette ancora più tristezza nel cuore. Ma tanto a noi occidentali che ci frega: quei luoghi sono troppo lontani e fuori dai riflettori, per rappresentare un qualcosa di cui dovremmo preoccuparci. Dico bene?
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Commenti
Trap ha scritto:
Non è detto che in quei luoghi, dove ci sia povertà assoluta, ci sia infelicità assoluta… non è scontato nemmeno questo
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camu ha scritto:
Oh assolutamente si. Il mio amico anzi mi diceva che la gente in Madagascar riesce a gioire con quel pochissimo che ha. Vederli ballare nella capanna del villaggio, alla luca fioca di una lampadina che ha visto tempi migliori, e dopo una lunga giornata di lavoro, era un qualcosa di unico
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Trap ha scritto:
Non solo del poco che si ha, ma anche per la qualità delle relazioni e anche per il senso di solidarietà che è maggiore tra i poveri che tra gli abbienti
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camu ha scritto:
Hai ragione, quando si toglie “il portafogli” dall’equazione, i rapporti sociali ne beneficiano di sicuro. Secondo me è anche una questione culturale: in occidente siamo sempre stati individualisti, inseguendo la cultura del “me”, ma questo non vale per tutto il mondo.
Scricciolo ha scritto:
Purtroppo non siamo capaci di imparare dalla storia. Si ripetono sempre le stesse nefandezze, con l’aggravante che dovremmo essere maggiormente consapevoli, ma non serve. Ora oltre alle situazione drammatiche di certe località, tutti noi siamo diventanti merce, ma a differenza di certe situazioni dove non c’è scampo, potremmo non permetterlo, e invece … La produzione non viene fatta per soddisfare i bisogni, ma vengono create false necessità per aumentare la produzione. Sinceramente mi dissocio da questo mondo a me incomprensibile, nonostante vi siamo comunque tantissime brave persone nel mondo. Ma la bontà non fa notizia.
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camu ha scritto:
Questo è esattamente quello che mi passava per la mente mentre giravo per quelle stanze. Sono trascorsi secoli da quegli eventi, e continuiamo a commettere gli stessi errori…